IL FILO NASCOSTO CHE LEGA ALESSANDRO MAGNO E AUGUSTO: LA PROPAGANDA IN TEMPI LONTANI DA INTERNET.

Pubblicato Martedì, 13 Novembre 2018 10:25 Visite: 2246

Categoria: Storia e dintorni: la storia vista con gli occhi di chi l'ha fatta, vissuta, raffigurata.

Quando capita di spiegare a qualcuno che non è nel settore della numismatica una moneta romana di epoca imperiale, si parte dal volto impresso sul dritto per poi ragionare del fatto che gli imperatori si servivano anche di questo oggetto per “propagandare” la propria immagine e, con essa, il proprio operato.

Ci si sofferma su quanto sia incredibile poter avere la certezza che un abitante dell’Impero che si trovasse in Africa o in Grecia, in Asia o in Spagna, conoscesse il volto di un uomo, un solo uomo che viveva a Roma e dal quale dipendevano le sorti del suo paese, della sua famiglia, della sua stessa vita. Un uomo il cui giudizio e potere erano assolutamente indiscutibili e universalmente riconosciuti. Quanta fragilità si celava dietro questa onnipotenza che poteva essere cancellata in qualunque, fin troppo semplice, modo. Non è un caso se i soggetti più sensibili, divenuti imperatori, impazzirono passando alla storia per i loro atti scellerati invece che per le meno eclatanti, eppur buone, decisioni. Ma questa è un’altra storia.

Per capire fino in fondo il decisivo sviluppo di concetto di propaganda è necessario fare un piccolo, fondamentale passo indietro.

 

Indietro alla polis greca, quella che noi traduciamo con l’espressione “città stato”, una realtà autonoma dal punto di vista politico, militare ed economico. È assolutamente corretta questa definizione di polis: un luogo senza un re, un luogo in cui fra i cittadini liberi vigeva il principio di isonomia e nel quale non vi era un potere esecutivo distinto dai cittadini, dunque era assente il concetto di “stato” nel senso moderno del termine. Ogni avente diritto (attenzione: solo lui! Non genericamente chiunque) lavorava per il bene di tutti in armonia con le leggi dell’universo migliorando e difendendo la comunità a beneficio di se stesso e di coloro che ne facevano parte, senza interesse personale. La conformazione geografica della Grecia fece il resto: la montuosità non agevolava gli scambi interni fra città e queste si univano all’interno e si chiudevano verso l’esterno, organizzandosi ciascuna secondo la propria inclinazione “genetica” e senza concessioni alla comprensione reciproca. Per fare un esempio che spieghi e che conosciamo tutti, prendiamo Atene e Sparta: una democratica l’altra oligarchica ma entrambe polis. Ciascuna ebbe una grande storia ma fra di loro furono impegnate in una guerra che vide vittoriosa l’una o l’altra a fasi alterne. Al di là dell’esito finale, favorevole ad Atene, quello che questa lunga e triste vicenda (la Guerra del Peloponneso) mostra a chi bene osserva gli eventi storici, è la debolezza insita in un sistema che, se da una parte vede crescere l’attaccamento di un cittadino alla propria città, dall’altra evidenzia quanto sia pericoloso non formulare un progetto comune, in un miope accaparramento di momentanea egemonia. In un respiro ampio siamo in grado di capirlo noi che oggi leggiamo quanto fragili fossero i Greci di fronte all’immensità, per esempio, dell’esercito persiano. Fragili, si, ma anche fieri: accenno soltanto a quello che per me è la più bella pagina di storia che sia stata mai scritta per una volta non dai vincitori ma dai vinti. Un minuscolo accenno, ma doveroso, a Leonida e i suoi trecento Spartani: fecero perdere tempo ai Persiani pur sapendo di non avere speranze, per consentire agli ateniesi di organizzarsi nel disperato tentativo di resistere all’invasore. Alle Termopili morirono tutti, consci di andare al massacro per una causa superiore alla paura per la propria incolumità e questo estremo sacrificio diede modo agli ateniesi di evacuare la città e alla flotta greca di organizzarsi a Salamina per ottenere una storica vittoria che mise in fuga i Persiani e diede tregua al popolo ellenico. È in questo clima che si inserisce Filippo II, re di Macedonia, chiamato dai Greci per opporre resistenza ad un nemico numericamente troppo superiore: il re accettò e vinse, e vinse sempre di più, il re. E le sue conquiste erano notevoli. E avrebbe potuto inglobare totalmente la Grecia, soffocando ogni peculiarità di questo popolo. Invece questo re ebbe l’intelligenza di comprenderne la superiorità culturale e, semmai, appropriarsene. E intelligentemente volle Aristotele come insegnante del proprio figlio Alessandro il quale, proprio per questo, amò profondamente la cultura greca.

Visse poco Alessandro Magno: solo trentatre anni. Regnò pochissimo: solo dodici. Ma il suo timore di non riuscire ad eguagliare le gesta del padre ne fece di lui un condottiero migliore e l’ambizione ereditata dalla madre Olimpiade ne ispirò, già a venti anni, una grande sete di potere. Alessandro non voleva che il padre gli lasciasse troppe ricchezze e infiniti territori: al contrario temeva che Filippo non gli lasciasse nulla da conquistare da solo. Generoso e impetuoso, si gettava per primo nelle fila nemiche e poi, una volta conquistata una città o una postazione nemica, spesso la regalava ad un amico proprio perché ciò che lo appagava era vincere, superare i propri limiti, accrescere il proprio potere, non possedere denaro.

Sapendo ciò sarà più evidente l’innovativo modo di Alessandro Magno di propagandare la propria immagine, eternando le proprie gesta. Il re era infatti solito portare con sé intellettuali che magnificassero ogni aspetto della sua vita: dalle sue origini divine (il racconto sulla sua nascita, che lo vorrebbe figlio di Zeus), alle sue imprese eroiche (il famoso aneddoto del nodo di Gordio) fino all’indomito desiderio di conquista che lo portava a rifiutare sempre la resa (l’indimenticabile risposta al suo amico e generale Parmenione “Se fossi Parmenione accetterei [l’offerta di pace da parte di Dario III, n.d.r.]. Ma io sono Alessandro e come il cielo non contiene due soli, l’Asia non conterrà due re!).

Tanta attenzione posta nel costruire la propria immagine si riversava, ovviamente, anche nel modo in cui voleva essere raffigurato e per questo Alessandro sceglieva con cura gli unici artisti addetti alla sua immagine e fra questi segnaliamo in particolare Lisippo, lo scultore che riuscì a trasformare un suo difetto fisico (la scoliosi probabilmente) in caratteristica peculiare (il collo inclinato verso sinistra e verso l’alto) che lo faceva sembrare sempre in cerca dell’ispirazione dal padre divino.

 

Figura 1 Alessandro Magno effigiato come Apollo, Musei Capitolini.

 

Figura 2 Tetradramma di Alessandro Magno.

Tutta questa premessa era necessaria per comprendere il nuovo, consapevole concetto di propaganda che lega con un filo invisibile il regno macedone all’impero romano: un legame di nome ellenismo, fenomeno che si fa cominciare con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e si fa terminare con la battaglia di Azio (31 a.C.) che sancisce il predominio di Roma sull’Egitto. Con ellenismo intendiamo quel modo che il regno macedone dovette trovare per unire sotto un’unica egida un territorio vastissimo. Ma l‘ellenismo fu molto di più. Se andiamo alla radice della parola, il suo significato più profondo è rendo greco. In questa espressione si racchiude l’ambizione di Alessandro non solo di sottomettere e comandare ma, più profondamente, di educare ed istruire alla cultura greca. Non è un caso se trecento anni più tardi Augusto mostrò di aver compreso la vastità dell’opera del sovrano macedone: narra Svetonio che giunto alla tomba di Alessandro se ne fece portare il corpo e poggiò sulla testa del defunto una corona d’oro intrecciata con i fiori. Alla domanda se volesse vedere anche Tolomeo, significativamente rispose che era venuto per recare omaggio ad un re, non ad un cadavere. Appare alquanto evidente che il primo imperatore romano era perfettamente conscio che si trovava di fronte al primo sovrano ecumenico della storia e gli porgeva il massimo rispetto, magari desideroso di eguagliarlo.

E allora lasciamo riposare in eterno questi due sovrani, coloro che cambiarono il mondo in un modo che ancora studiamo per comprendere le nostre origini, la nostra storia. E godiamoci la loro effigie su monete e statue che li raffigurano per come loro volevano essere ricordati, talmente consci della propria grandezza da fondere l’apparire con l’essere nel più intimo dei significati.

 

Figura 3 Augusto, Dupondio, 22 d.C. D: DIVUS AUGUSTUS PATER / R: PROVIDENT S.C. (Restituzione di Tiberio)

 

Figura 4 Augusto Prima Porta o Augusto Loricato (la Lorica è la corazza da legionario), Musei Vaticani.

Le immagini che ho scelto hanno un senso se lette nel concetto di propaganda da cui siamo partiti. Se è vero, ed è vero, che il discorso sarebbe ampio e molto articolato, quello che qui si vuole far notare è come questi due personaggi fossero fra loro legati: senza averlo studiato a scuola, senza documentari, senza film e quanto possa pubblicizzare un personaggio a dismisura, Augusto aveva compreso la grandezza di Alessandro e a lui si ispirava. Questo significa che quest’ultimo, pur non avendo creato la propaganda, certamente la utilizzò meglio degli altri e il primo imperatore romano, a sua volta, ne fece tesoro e la migliorò al punto da riuscire a morire, caso più unico che raro, anziano e di morte naturale, nel proprio letto.

E allora, esaudendo l’ultimo desiderio di Augusto, personalmente mi inchino e applaudo perché ho apprezzato e amato lo spettacolo da lui messo in scena, tanto da studiarlo ancora con amore, dedizione e tanta, tanta gratitudine per aver lasciato una Roma “di marmo”, dopo averla trovata “di mattoni”.

Articolo a cura della d.ssa Alessandra Parrilla.