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La Tragedia della Sepoltura

Pubblicato Lunedì, 20 Maggio 2013 11:48 Visite: 4100

Categoria: Storia e dintorni: la storia vista con gli occhi di chi l'ha fatta, vissuta, raffigurata.

Correva l’anno 1505, era il mese di marzo. Un personaggio giungeva a Roma chiamato dal papa Giulio II (nato Giuliano Della Rovere, pontefice dal 1503-1513): aveva 30 anni e lo accompagnava una fama già consolidata a Firenze presso i Medici. In realtà a Roma egli era già stato, per quattro anni, e il suo segno lo aveva lasciato in particolare in opere che a sentirle nominare appaiono davanti agli occhi della maggior parte della gente: il Bacco e La Pietà. Quando arrivò la chiamata dal pontefice l’artista si trovava nell’appena nata Repubblica fiorentina dove tentava di interpretare le neonate idee politiche portate avanti da Niccolò Machiavelli. Questi proponeva un modello di cives-milites, di cittadino abile alla guerra che permettesse alla città di Firenze di difendersi autonomamente senza dover ricorrere alle milizie mercenarie che non sono affidabili. L’artista trasfuse  questo concetto in un’opera alta quattro metri, di marmo bianco, personificazione della bellezza e perfezione del corpo: il David. A differenza delle precedenti versioni di Donatello e Verrocchio che mostravano questo giovane acerbo trionfante sulla forza bruta del gigante Golia, lo scultore ce lo presenta come un ragazzo già nel pieno della sua bellezza e gagliardia fisica, concentrato e motivato: sta per sferrare il colpo letale. Non più eroe biblico dunque, quanto piuttosto modello di come il cittadino deve interpretare l’idea della difesa della repubblica.

 

Figura 1 David di Michelangelo

Naturalmente stiamo parlando dell’immenso genio di Michelangelo e “proviamo” a farlo tentando di delineare i contorni di un rapporto difficile quanto prolifico che l’artista ebbe con uno dei suoi committenti in particolare, proprio quel Giulio II, precedentemente nominato. Scegliamo questo aspetto perché Michelangelo fu molto prolifico nonché longevo (per fortuna! Per chi ama l’arte) per cui ci piacerebbe dedicargli vari articoli.

 

Dunque riprendendo il cammino con Michelangelo, eccoci giunti a Roma dove egli era preceduto dalla sua fama. Giulio II lo aveva convocato perché l’artista realizzasse per lui la tomba che doveva ospitarlo per l’eternità. A Michelangelo l’idea piacque subito talmente tanto che i successivi 8 mesi li trascorse a Carrara, nelle cave, alla ricerca dei marmi più bianchi e perfetti che riuscissero a rendere giustizia alla sua idea geniale: una tomba piramidale con la base di 7.20 metri, l’altezza di 10.80 metri e figure allegoriche che permettessero a questo mausoleo di superare “ogni antica e reale sepoltura”, come ebbe a dire il Vasari.

 

Figura 2 Ipotesi del Primo progetto per la tomba di Giulio II

Fra il gennaio e l’aprile del 1506 cominciarono il lavori poi, improvvisamente, il principio di un dramma: 18 aprile 1506, Michelangelo lascia Roma offeso e sconvolto. Giulio II non gli concede udienza e per lui è semplicemente inaccettabile. Ma il povero Giulio II probabilmente non aveva tutta questa fretta di vedere la sua dimora eterna e preferiva dedicarsi anche ad altro. Altro in cui aveva compreso l’opera di Michelangelo stesso, non è che lo avesse escluso: ma Michelangelo era troppo deluso dal comportamento del papa per potersi fermare a comprendere. Inutile il tentativo del pontefice di rincorrerlo con i suoi messi papali. Michelangelo era deciso. Era stato troppo duro l’affronto di dover fare ore di anticamera mentre il pontefice dialogava amabilmente col Bramante per decidere della ricostruzione di San Pietro: che ne parlasse anche con lui! Va bene che Bramante ormai era anzianotto e dunque di più consolidata esperienza, ma lui era un genio! Insomma Giulio II fallisce con i messi papali e dunque si vede costretto ad adottare un altro sistema: minaccia la Signoria di Firenze per far rimandare a Roma il ribelle. Sette mesi durò questo “tira e molla” fra i due finchè a Bologna, dove Giulio II si era recato dopo che le truppe papali avevano riconquistato questa città “mi fu forza andare là con la correggia al collo a chiedergli perdonanza”: naturalmente dei due era Michelangelo che piegava la testa e cercava perdono. Va detto che il pontefice era ben contento di accettare le scuse. Nel marzo 1508 l’artista prese in affitto una casa a Firenze visto che aveva fatto pace col pontefice ma non aveva commissioni: il 10 maggio stava a Roma cominciando i progetti per i lavori (i ponteggi furono montati a luglio) della Cappella Sistina. Erano lavori piuttosto  urgenti per la verità, perché nel soffitto della volta voluta da Sisto IV () si era formata una crepa profonda per  via di un assestamento del terreno e Giulio II finora aveva tenuto insieme la crepa perché non si allargasse con delle catene. Ovvio che non si poteva andare avanti così. Un primo progetto prevedeva di dipingere sulla volta col cielo stellato di Piermatteo d’Amelia i Dodici Apostoli. Giulio II accettò il disegno che Michelangelo aveva progettato con gli esperti in dottrina.

Qui bisogna interrompere la narrazione per spiegare come avveniva l’ideazione di un progetto. Innanzitutto bisogna tenere presenti chi erano committenti a cavallo fra il XIV e il XV secolo: poteva essere lo Stato, il Principe, le confraternite o gli onnipresenti potenti ecclesiastici. Gli artisti potevano essere degli “stipendiati” oppure organizzarsi in botteghe dove il committente si recava e sceglieva un’opera iniziata ma non finita (così da poter discutere i dettagli del definitivo compimento) o commissionava un’opera per intero. Le motivazioni che muovono la committenza sono le stesse: eternare il proprio passaggio su questa terra unito alla immensa soddisfazione di contribuire con le proprie idee al compimento da parte dell’artista di un capolavoro. Nei contratti che ci sono pervenuti notiamo che ci sono postille che possono riguardare vari aspetti del lavoro (magari tratteremo l’argomento in separata sede e approfonditamente) fra cui il fatto che le parti principali dovevano essere autografe del “maestro”: ad esempio i personaggi fino al busto. Andava poi stabilito il “piano dell’opera” quando questa fosse particolarmente complessa e allora ecco che un’equipe di veri esperti si metteva al lavoro per discutere. Una distinzione ereditata dqal mondo antico stabiliva che nell’arte della retorica esistevano tre momenti fondamentali: INVENTIO, DISPOSITIO, COMPOSITIO. Nel XV secolo ci si appropriò di questo concetto e lo si applicò all’arte per fare in modo che le opere dai contenuti più complessi fossero resi al meglio. La inventio generalmente corrispondeva al momento in cui al committente veniva in mente di voler vedere realizzato un progetto. La Dispositio spettava ai consiglieri, la squadra di letterati e teologi che, ciascuno per quel che gli spettava, metteva in campo le proprie competenze per chè l’opera potesse essere fedele al testo e comprensibile a tutti. la Compositio, neanche a dirlo, era peculiarità dell’artista, colui che, date le linee entro cui operare, metteva il proprio genio a disposizione.

Questa piccola digressione era quanto mai dovuta per comprendere appieno sia ciò che succedeva all’interno della più famosa Cappella del mondo quando Michelangelo, Giulio II e la schiera dei dotti decidevano come procedere per coprire la crepa nel soffitto, sia cosa significasse per Michelangelo scrivere al padre che il pontefice apprezzava a tal punto l’originalità dell’artista da rassicurarlo “...che io facessi nella volta quello che io volevo”. E allora ecco che noi siamo grati a Giulio II per aver accordato fiducia ad un genio assoluto che per la prima volta innalza la bellezza del corpo umano, e per esteso dell’essere uomo in quanto tale, allo stesso livello della divinità: quel tocco nella Creazione è uno sfiorarsi di due dita come se Dio volesse dire ad Adamo “sei già perfetto così…”.

 

Figura 3 Particolare della Creazione

E gli ignudi di Michelangelo sono veramente perfetti e se si potesse vedere gli affreschi con la luce dell’epoca, ce ne renderemmo maggiormente conto: provate per un attimo a rimontare i ponteggi, spegnere le luci, accendere le candele. Provate a salire su quei ponteggi su cui lavorava Michelangelo e sdraiatevi: come per magia, vedrete i  muscoli prendere vita, vedrete Dio volersi congratulare con se stesso per avere creato un Adamo così perfetto, vedrete Eva piangere, cacciata dall’Eden per avere disobbedito.

Figura 4 La Creazione.

Dopo aver per un attimo sognato di stare sdraiati ad ammirare il soffitto su quegli stessi ponteggi usati dal grande maestro, torniamo alla dura realtà. E ci tornò anche Michelangelo quando vide formarsi sul soffitto la muffa. Ebbene si. Anche lui, il grande e geniale, l’immenso e irraggiungibile, ebbe questo enorme problema dovuto al fatto che non aveva esperienza di affresco e aveva usato una calcina troppo acquosa nell’intonaco che va steso per preparare il muro prima di dipingere. Michelangelo fu aiutato da artisti fiorentini per dipingere il Diluvio, L’ebbrezza di Noè e il sacrificio di Noè. Li congedò per rimanere da solo a dipingere il resto fino all’agosto del 1510. Dopo finirono i fondi visto che le finanze del pontefice confluirono nella lotta ai francesi e il 15 agosto del 1511 fu scoperta la prima parte della volta con grande entusiasmo da parte di tutti. Nell’ottobre del 1512 era finita anche la seconda parte del soffitto ma Michelangelo si lamenta in una lettera al padre “io o finita la chapella che io dipingevo; el papa resta assai sodisfatto, e l’altre cose non mi riescono come stimavo; incolpone e’ tempi, che sono molto contrari all’arte nostra”.

Finito, in modo egregio secondo noi (perché secondo Michelangelo i tempi non erano propizi….!), il soffitto della Cappella Sistina, Michelangelo si apprestò a preparare un secondo progetto per la tomba del pontefice: ammettendo che l’entusiasmo era un “pochino” scemato, il denaro finalizzato ad altri progetti, gli interessi del pontefice (ben lungi dal voler sapere dove avrebbe dimorato per l’eternità) diretti altrove, comunque il caparbio artista non mollò la presa e un nuovo contratto fu stipulato nel maggio del 1513.

Ma del secondo progetto sono rimasti solo due disegni e una postilla in un contratto oltre alla lamentela con un tale di nome Baldassarre cui Michelangelo chiedeva dove fossero finiti i marmi che LUI aveva pagato di tasca propria! Intanto che il pontefice moriva senza ancora una tomba! Michelangelo aveva ben altri pensieri per la testa. E non erano pensieri da poco: anche se lui era il grande maestro, non è da tutti sapersi confrontare con Raffaello Sanzio. Il Vasari infatti così commentò l’affacciarsi sulla scena romana del timido quanto determinato e dotato pittore “più aderivano alla grazie di Raffaello che alla profondità di Michelangelo”. Infatti il nuovo papa era Leone X, Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, il quale conosceva Michelangelo, ma non era molto interessato a lui quanto piuttosto al Sanzio e lo fece notare subito: nelle stanze del pontefice stava lavorando Bramante, e quando questi morì furono affidate a Raffaello e da quel momento, fu guerra aperta. Da questa lotta all’ultima pennellata nacquero dei grandi capolavori e d’altra parte la storia dell’arte è piena di aneddoti circa rivalità che hanno però avuto il merito di fruttare incredibili opere (e ne parleremo). A un certo punto Michelangelo mise in atto una strategia che ci spiega il Vasari, e noi lasciamo parlare lui: “molti artefici che più aderivano alla grazia di Raffaello che alla profondità di Michelagnolo, erano divenuti, per diversi interessi, più favorevoli nel giudizio a Raffaello che a Michelagnolo. Ma non già era de' seguaci di costoro Sebastiano perché, essendo di squisito giudizio, conosceva a punto il valore di ciascuno. Destatosi dunque l'animo di Michelagnolo verso Sebastiano, perché molto gli piaceva il colorito e la grazia di lui, lo prese in protezione, pensando che se egli usasse l'aiuto del disegno in Sebastiano, si potrebbe con questo mezzo, senza che egli operasse, battere coloro che avevano sì fatta openione, et egli sotto ombra di terzo giudicare quale di loro fusse meglio” . Per questo il grande maestro collaborò con Sebastiano dal Piombo e questa alleanza, nata per contrastare l’egemonia di Raffaello, durò poi per venti anni. Siamo  nel 1516 quando Giulio de’ Medici commissionò due pale d’altare palesando la sfida: una a Raffaello Sanzio (fece la Trasfigurazione), l’altra a Sebastiano da Piombo. Quest’ultimo dipinse “La resurrezione di Lazzaro” a quattro mani con Michelangelo.

Figura 5 La Resurrezione di Lazzaro.

Si potrebbe parlare ore di questo quadro ma è meglio osservarlo: chi scrive è sicura del fatto che a guardarlo bene sarà evidente a tutti in che modo i due artisti si suddivisero i compiti. Colore e vedute romane vennero eseguite da Sebastiano dal Piombo mentre Michelangelo si occupò di raffigurare Lazzaro. Sono certa che non ci sia bisogno di commentare.

 

Figura 6 Disegno preparatorio di Michelangelo per il Lazzaro de La Resurrezione di Lazzaro.

Tanto era l’entusiasmo di Sebastiano che aveva quasi finito il quadro mentre Raffaello ancora non lo cominciava e scrive a Michelangelo non voglio che Rafaello veda la mia in sino lui non ha fornita la sua. Va detto, per inciso, che Raffaello morì sei giorni prima di vedere esposta la propria tela.

Intanto ci fu un terzo progetto per la tomba di Giulio II (luglio 1516) che naturalmente non fu realizzato: non per nulla fra gli storici dell’arte la vicenda è nota come “la tragedia della sepoltura” la quale fu realizzata solo nel 1545. La parola al maestro “Meglio m’era nei primi anni che io mi fussi messo a fare zolfanelli ch’i’ non starei in tanta passione... io mi truovo aver perduto tutta la mia giovinezza, legato a questa sepoltura...

 

Figura 7 Ipotesi terzo progetto, del 1516

Il perché di tanta amarezza espressa da Michelangelo in una lettera ad un anonimo, lo spieghiamo subito. Giulio II si dedicò ad altre opere perché riteneva che il suo segno su questa terra sarebbe stato più evidente. Comunque non rinunciò alla propria tomba e incaricò gli eredi di occuparsene. I quali però avevano da fronteggiare il nuovo pontefice, Leone X, preoccupato di rifare San Pietro e, come abbiamo già detto, molto irretito dalla presenza di Raffaello. Di Michelangelo si scrisse a questo proposito che lasciò la tomba piangendo e se ne tornò a Firenze. La verità è che era ben contento di occuparsi di altri lavori. Di fatto però l’artista doveva onorare un contratto e Francesco della Rovere, erede di papa Giulio II, nel 1524 minacciò un processo per riavere i soldi degli anticipi già versati al Buonarroti. Siamo nel 1526 quando Michelangelo presenta un quarto progetto che gli eredi però rifiutarono. Non si sa bene in cosa consistesse, ma pare fosse un’ulteriore semplificazione dell’originario disegno. A quel punto, nel 1532, intervenne Clemente VII per cercare di mediare le controversie, ma inutilmente. Si stipulò un nuovo contratto che prevedeva che il lavoro doveva essere terminato in tre anni e che la destinazione della tomba non fosse più San Pietro in Vaticano ma San Pietro in Vincoli, e che dovevano essere impiegati i marmi già lavorati (i Prigioni, per intenderci). Ma neanche questa volta Michelangelo riuscì a tener fede al contratto: Clemente VII gli commissionò il Giudizio Universale nel 1534 e fu poi voluto anche da Paolo III Farnese che salì al soglio pontificio alla morte del predecessore, proprio nel 1534. Per questo Paolo III dovette emettere un motu proprio, un provvedimento che svincolasse il Buonarroti dai suoi impegni con i Della Rovere. Gli effetti non tardarono a farsi sentire: Michelangelo fu accusato di essersi indebitamente appropriato degli anticipi che gli erano stati versati per eseguire la tomba e di aver praticato l’usura con quei soldi. Il Buonarroti si difese con tutte le sue forze sostenendo che chi lo accusava non era neanche nato, mentre lui poteva portare testimoni delle vicende: Io mi truovo aver perduta tutta la mia giovinezza, legato a questa sepoltura; [...] la troppa fede non voluta conoscere mi ha rovinato; [...] per l'amore che portavo a detta opera, [...] ne son pagato col dirmi ch'i' sia ladro e usuraio da ignoranti che non erano al mondo [...]. Prego Vostra Signoria, quando gli avanza tempo, legghi questa storia e serbimela, et sappi che di gran parte delle cose scripte ci sono ancora testimoni. Ancora quando il papa la vedesi, l'arei caro, et che la vedessi tutto il mondo, perché scrivo il vero, e molto manco di quello che è, et non sono un ladrone usuraio, ma sono cittadino fiorentino, nobile, e figliolo d'omo dabbene.

Intanto, finito il Giudizio Universale, Paolo III intervenne di nuovo per convincere gli eredi a lasciare in pace Michelangelo e ad accettare un progetto nuovo per la sepoltura, guidato dal Maestro, ma eseguito da seguaci. La tomba ebbe definitiva esecuzione nel 1545 (dopo ben sei progetti e quarant’anni) e si trova, come già ricordato, in San Pietro in Vincoli, sul Colle Oppio, famosa perché ospita proprio nota perché la sua statua principale è anche una delle opere più note di Michelangelo, il Mosè.

 

Figura 8 La tomba di Giulio II come la vediamo oggi.

 

Figura 9 Il Mosè, particolare della tomba di Giulio II.

Le critiche per l’artista non si fermarono, si fecero, anzi, sempre più feroci, con Pietro Aretino che lo additava come “avaro” “ingrato” e “ladro”. Leggere gli scritti dell’epoca mette in condizioni di trasformarsi un po’ in un investigatore e chi scrive deve ammettere che non sono state poche le perplessità studiando questa figura così complessa. Le domande che mi sono posta sono ostate: ma perché Michelangelo si è così accanito nell’esecuzione di questa opera? In fondo ne aveva di ben più importanti per le mani. Perché piangeva mentre doveva andare a completare San Lorenzo? Si era così affezionato a questa tomba? Non tornano i conti se si pensa che prima di questa commissione Michelangelo aveva già eseguito lavori importanti e ne avrebbe eseguiti di ancora più prestigiosi e imponenti. Leggendo e studiando si viene a scoprire che non è vero, come lui sosteneva, che Giulio II gli aveva dato pochi soldi, Michelangelo ne aveva presi tantissimi per eseguire il progetto. Forse era vero che aveva speso tutto? per questo i successivi progetti erano sempre più ridotti? Perché sarebbero costati meno? Non è che Giulio II era tutto preso dai lavori in Sistina e non se ne era accorto e invece i suoi eredi che di quella tomba avevano solo l’incombenza i conti se li erano fatti e pure bene? E allora viene da pensare che forse Michelangelo era divorato dai sensi di colpa perché sapeva di non aver dato il giusto peso a questa impresa che gli era stata affidata e, nello stesso tempo, di aver sperperato il denaro che doveva utilizzare a tale scopo.

In quest’ottica, la nomina di Tragedia della sepoltura assume un aspetto per nulla esagerato visto che l’artista fu profondamente segnato da questa vicenda. Comunque noi siamo grati al Buonarroti per non aver fatto “zolfanelli” invece che l’artista, perché il mondo sarebbe stato certamente più povero e meno bello senza i suoi capolavori.

La narrazione si interrompe qui, ma solo per il momento: non abbiamo finito, e mai lo faremmo, di mostrare il genio di Michelangelo. Vorremmo però illustrarlo per gradi, per apprezzarne l’opera in maniera profonda, se avrete la voglia di seguirci.