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ARTISTI BAROCCHI: GENI O IMBIANCHINI?

Pubblicato Martedì, 12 Marzo 2013 11:28 Visite: 3884

Categoria: Storia e dintorni: la storia vista con gli occhi di chi l'ha fatta, vissuta, raffigurata.

"Pictoribus atque poetis omnia licent" Così parlava il Malvasia, storico dell'arte del 1600 cui dobbiamo preziose informazioni sui costumi dell'epoca riguardo il mecenatismo. E ancora prosegue "quell'eccesso di spirito che tali li rende [cioè grandi artisti], è lo stesso che a viva forza li porta a queste bizzarrie". Ma veramente nel 1600 gli artisti erano considerati come degli animi talmente grandi da non potersi contenere e, dunque, da dover "giustificare" per gli eccessi come effetti collaterali del loro genio? La verità è che la parabola de genio incompreso era ben lungi dall'essere formulata, se si eccettua la figura di un pittore sui generis come Salvator Rosa.

 

Figura 1 Salvator Rosa, Allegoria dell amenzogna. Galleria degli Uffizi a Firenze

 

Costui era l'unico che rifiutava di essere considerato un semplice decoratore. Essendo però una voce isolata fra i suoi contemporanei era costretto ad avere una vera e propria claque che lo elogiava e lo apllaudiva alle esposizioni che egli organizzava per mostrare i propri lavori sperando di potersi svincolare dal mecenatismo di ricchi signori. Salvator Rosa li mandava a farsi benedire e si rifiutava di prendere "ordinazioni" per i propri lavori asserendo con forza che egli si assoggettava solo all'ispirazione. Questo atteggiamento non gli portò grande fortuna, ma certamente ha il merito di aver contribuito a dare moderna dignità all'artista. 

La protesta di Salvator Rosa fu fondamentale se vista sotto la luce della moderna critica perche' in questo periodo (Rosa nacque a Napoli nel 1615 morì a Roma nel 1673) ancora si credeva che il talento artistico fosse ereditario per cui in una città come Venezia i pittori rientravano nella corporazione degli artigiani e questo "mestiere" si tramandava di padre in figlio: questo concetto a un ribelle irriverente come Salvator Rosa ma anche a geni indiscussi come Caravaggio (1571-1610) non poteva andare bene. Ma non tutti potevano permettersi il lusso di ribellarsi ai loro committenti: non era una scena usuale vedere un Michelangelo (1475-1564) che va via offeso perchè non ottiene le attenzioni che ritiene di meritare dal pontefice e per questo viene inseguito dai messi papali che invano cercano di riportarlo indietro (detto per inciso, lui tornò dal papa dopo aver sbollito la rabbia).

 


La situazione descritta dai contemporanei è ben diversa da quella che oggi immagineremmo di fronte a cotanto genio. Salito al soglio pontificio, un papa portava con sè i propri parenti (gli unici di cui pensava di potersi fidare abbastanza) e li investiva di cariche importanti: pare che un nipote di un cardinale papabile fece una fattura a morte al futuro Urbano VIII sperando fosse fatto papa suo zio proprio perchè sapeva che ne sarebbero scaturiti enormi privilegi . Sistemata la corte il nuovo pontefice sceglieva degli artisti che magnificassero la sua figura ed eternassero la sua presenza a Roma e li sceglieva fra i suoi conterranei. Si è deciso di seguire le gesta di uno dei connubi più famosi e prolifici della storia dell'arte per rendere il percorso più chiaro, quello che vide affiancarsi Urbano VIII, papa Maffeo Barberini, e Gianlorenzo Bernini.

Il cardinale Barberini era di Firenze e quando divenne papa volle con sè un fiorentino. Aveva già conosciuto e apprezzato il talento del giovane Gianlorenzo mentre questi lavorava ancora a fianco del padre, Pietro. Ma allora Maffeo era giovane e non abbastanza influente quindi non poteva pretendere di commissionare lavori ad un artista tanti più se costui era già impegnato con il potente cardinale Scipione Borghese, zio dell'allora papa Paolo V. E d'altra parte i contemporanei spesso fecero capire che Scipione Borghese era piuttosto "sbrigativo" quando si trattava di accaparrarsi un'opera d'arte che lo interessava: non esitò a far imprigionare il Cavalier D'Arpino per avere 105 dei suoi dipinti con la scusa che il pittore era in arretrato con il pagamento delle tasse. Per non parlare del fatto che aveva fatto carcerare anche Domenichino per potergli rubare "La caccia di Diana" che tanto gli piaceva ma che il pittore (di indole mite e ubbidiente, da qui il nomignolo con cui è noto ai più) aveva dipinto per gli Aldobrandini che gliela avevano commissionata.

 

Figura 2 Domenico Zampieri detto il Domenichino, Caccia di Diana. 1617, Galleria Borghese.

E che dire del fatto che nottetempo rubò "La Deposizione" di Raffaello dalla cappella Baglioni a Perugia per aggiungerla alla propria collezione? In questa situazione, immaginiamo che nessuno avesse voglia di contraddirlo in materia di arte. Comunque Maffeo Barberini aveva dalla sua enormi disponibilità finanziarie (nel 1600 gli morì lo zio che lo lasciò erede di immense fortune) e una cultura, una raffinatezza non usuali. Se a questo uniamo una smodata ambizione, si capisce come non si preoccupasse del fatto che al momento il giovane Bernini avesse altri committenti: nell'attesa si narra, ma probabilmente è leggenda, che Maffeo tenesse al maestro Bernini lo specchio perchè egli potesse  immortalare la propria figura nel volto del David che stava modellando. Al futuro pontefice, bastò aspettare pazientemente il suo "turno".

 

Figura 3 Gianlorenzo Bernini, David. 1623. Galleria Borghese.

Alla morte di Paolo V salì al soglio pontificio un Ludovisi, Gregorio XV, bolognese lui e tutta la sua schiera di artisti. Nel frattempo il cardinale Barberini ebbe il tempo di spendere smodate cifre per la propria cappella di famiglia a Santa Maria Maggiore, per quella a Sant'Andrea della Valle, ed abbe anche modo di farsi un'idea in fatto di politica e "nepotismo".

Apprese tanto il meccanismo che quando divenne pontefice, nel 1623, mise in forte difficoltà il fratello Antonio, frate cappuccino, nominandolo cardinale contro la sua volontà e pretendendo di far diventare la chiesa del suo ordine al Pincio, Santa Maria della Concezione un santuario di lusso e sfarzosità.

 

Figura 4 Santa Maria della Concezione. Anche detta dai Romani La chiesa della ossa, le cappelle sono infatti decorate ciascuna con le ossa di cappuccini defunti per cui abbiamo la cappella degli omeri, quella dei teschi, quella dei femori e così via.

Più volte i poveri cappuccini tentarono di far capire al pontefice che erano contenti di tener fede all'imperativo del proprio ordine che imponeva la povertà. Il pontefice cercò di essere condiscendente finchè prevalse la sua indole e il suo gusto (indiscutibilmente eccezionale) per l'arte celebrativa (o dovremmo dire autocelebrativa): fu così che i cappuccini dovettero accettare un tabernacolo in bronzo con dei candelabri un pochino "eccentrici" mandati dal cardinale di Sant'Onofrio, e i progetti del pontefice stesso per un altare. Pur di soddisfare la propria vanità, si approvò in totale autonomia una dispensa sull'obbligo di povertà dei cappuccini. Anche se l'evento fa sorridere, bisogna pensare che la Chiesa aveva vissuto da poco un momento di grande crisi spirituale: poco tempo prima erano stati processati Galileo Galilei e Tommaso Campanella. Per noi è semplice asserire che la chiesa processò e condannò uomini che avevano ragione, ma a quell'epoca era impensabile credere a quei personaggi che si riteneva fossero solo dei pazzi farneticanti. E infatti il popolo stava a guardare e non gli sorgeva il dubbio che la condanna fosse ingiusta: basti pensare che nel Conte di Montecristo, scritto nel 1838 e ambientato fra il 1815  e il 1838, il protagonista asserisce che il sole gira intorno alla terra: erano passati già ben due secoli dal tempo di Galileo e ancora le sue teorie non erano provate! Il dover ribadire il dominio della Chiesa contribuì non poco alla creazione di una Roma potente e magnifica, che perpetuasse in terra la grandezza dei cieli. All'epoca di Urbano VIII la bufera era passata (Galileo era ancora vivo, ma aveva abiurato e il caso era stato archiviato) ma i pontefici ci avevano preso gusto ad abbellire Roma. E come dargli torto? Sisto V in soli 5 anni (dal 1585 al 1590) riuscì a costruire una nuova città di Roma con strade, rioni, obelischi (la Roma sistina appunto). Nessuno come lui ebbe la determinazione di portare a termine tanti progetti, tanto grandi. Il passo per voler competere nel lasciare l'impronta del proprio "passsaggio" nella città eterna, fu breve per i suoi successori. E quello per voler stravincere in grandiosità, fu ancora più breve.

In questo panorama si aggirava Urbano VIII, bello, ambizioso, istruito e pure ricco. Aveva tutti i requisiti fare un'enorme ombra su tutti, predecessori e successori. In questo clima si sviluppò il suo rapporto con Bernini e dobbiamo essere grati della vanità che infarciva il carattere di Urbano VIII perchè è su questo che regge il Barocco e Roma deve molto, moltissimo a questa mentalità. Bisogna però dire che con questo atteggiamento papa Barberini si attirò le invidie e per conseguenza logica il malcontento dei suoi contemporanei. Il suo medico compose il celebre epigramma, detto "pasquinata", che recita "quod barbari non fecerunt, Barberini fecerunt" a significare che i Barberini distrussero Roma più di quanto avessero fatto i barbari.

Il motivo di tanto astio era il fatto che Urbano VIII aveva spogliato celebri monumenti romani come il Colosseo e il Pantheon da tutto il bronzo che vi poteva trovare per poter portare a termine il progetto che aveva per l'altare da erigere sopra la tomba di San Pietro posta nella basilica, proprio sotto la cupola di Michelangelo. Si decise per un baldacchino imponente e il risultato lo conosciamo tutti: enormi colonne tortili che ricordano quelle del tempio di Salomone a Gerusalemme. Su una di queste colonne pare si sia poggiato Cristo ed è conservata in San Pietro, per questo urbano VIII voleva farvi riferimento.

 

Figura 5 Gianlorenzo Bernini, Baldacchino di San Pietro, 1624-1633.

Per il resto, questo incredibile monumento riporta tutti i simboli che richiamano la potenza dei Barberini (di papale ci sono solo tiara e chiavi): le api che questa famiglia nobiliare assunse dallo stemma francese (Urbano VIII da cardinale era stato molto in Francia e la sua politica era decisamente filofrancese), il sole, l'alloro in luogo della biblica vite.

In questo clima di egemonia artistica in cui Bernini non poteva assumere altri impegni che non gli fossero commissionati dai Barberini e non vi era artista che potesse aspirare a un lavoro se non veniva prima accettato da Bernini, è chiaro che le lamentele non tardarono a farsi sentire. "Quel dragone custode vigilante degli orti d'Esperia, premevi che altri non rapisse li pomi d'oro delle grazie Pontificie" questa la situazione descritta in versi dal Passeri. Questo il clima in cui faticavano ad emergere altri indiscussi geni dell'epoca (sarà argomento di un futuro articolo).

Il fervore artistico era veramente incredibile in quel periodo in cui le famiglie facevano a gara per lasciare un segno profondo nella città eterna: ancora oggi Roma deve il suo volto a questo momento glorioso (sotto un certo aspetto) della Chiesa. Anche perchè non era solo il pontefice ad essere potente, ma tutta la sua famiglia. Lo si è visto già con i Borghese, basta fare una passeggiata nella Galleria romana che porta il loro prestigioso nome per rendersi conto della vera e propria "catasta" di capolavori che si accaparrava lo zio del papa! I Barberini non erano da meno ed avevano una sensibilità artistica che gli consentiva di comprendere il genio di artisti anche quando si trovavano davanti dei fatali errori architettonici come quelli commessi dal Bernini (progettò male un campanile e lo fece crollare).

Ma i rapporti fra artisti e committenti non era sempre così aulico. Bisogna tener presente che in quel tempo gli artisti erano, come si diceva all'inizio, trattati poco più che da "imbianchini". La maggior parte dei pittori iniziavano un quadro, lo lasciavano incompleto, aspettavano un committente che andasse a visionare le loro opere nella loro bottega, ne scegliesse una e chiedesse di finirla. Altra possibilità era che il committente volesse da un artista a lui prediletto un quadro e nella lettera in cui glielo commissionava, indicava il numero di figure e la grandezza, così da poter definire il prezzo in base al "tariffario" del momento che variava anche in base a quanto veloce fosse il pittore: se era notoriamente lento, non poteva chiedere un prezzo alto, perchè le voci si spargevano e il committente "tirava" sul costo dell'opera per poter risparmiare. Per quanto una transazione del genere spoetizzi la concezione che abbiamo e che ci siamo fatta guardando dei grandi capolavori, è esattamente così che avveniva. Vi erano poi molte lettere che intercorrevano fra artista e committente quando il primo era lontanto dalla città da cui proveniva l'ordine. Se quello che era richiesto era una pala d'altare, è chiaro che il pittore doveva conoscere esattamente le condizioni di luce in cui sarebbe stata posizionata la sua opera, per poter rendere al meglio il soggetto. Ad ogni modo i genitori non ostacolavano i figli quando questi manifestavano il desiderio di diventare pittori. Evidentemente era un "mestiere" che dava i suoi frutti se i figli venivano indirizzati o verso le arti o verso la carriera ecclesiastica. Ma i pittori lavoravano quasi solo a Roma. E pittori romani quasi non ve ne erano. Quindi l'iter era il seguente: il pittore  veniva a Roma (a inizio 1600 erano quasi solo bolognesi, con i Carracci che introdussero un nuovo stile pittorico), era alloggiato inizialmente presso un monastero, dipingeva una pala d'altare (quando gli diceva bene). Se aveva successo, veniva portato a palazzo nobiliare dove veniva pagato e aveva vitto e alloggio in cambio di lavoro. Queste opere che produceva, lo avvicinavano ad altri committenti che in questo modo conoscevano il giovane pittore e magari decidevano di affidargli a loro volta del lavoro. D'altra parte il momento era propizio visto che per fronteggiare il pericolo della riforma erano nati tanti nuovi ordini religiosi che erigevano chiese bisognose di soffitti affrescati, pale d'altare, cappelle: in quel periodo nacquero Oratoriani, Gesuiti, Teatini, Barnabiti e Cappuccini.

Le varie comunità straniere (per straniere si intende, fiorentine, bolognesi, napoletane) a Roma si contendevano il lavoro. E' normale che in questo clima ci fosse,chi, come il già citato Salvator Rosa, cercasse di dare dignità artistica a quello che per lui non era un mestiere. Ed è in questo periodo che l'accademia di San Luca si batte per una dignità della corporazione degli artisti che fosse nettamente superiore  a quella degli artigiani, cui veniva ancora accorpata. Urbano VIII accentuò il distacco fra artisti e artigiani, ma bisogna attendere il 1700 perchè riprendesse vigore l'aura del genio incompreso che circonda l'artista. Basti pensare che Andrea Sacchi era al servizio del cardinale Antonio Barberini fra un giardiniere, un nano, tre servi e uina nutrice, solo dopo un anno fu ammesso al rango dignitoso dei dipendenti fra scrittori, poeti e segretari.

E d'altra parte il critico d'arte non esisteva per cui bisognava sperare in una pubblicità fatta dai protettori. Ma non dimentichiamo che a Roma morto un papa se ne fa un altro e quando se ne fa un altro, con quello che è morto decadono tutti, anche gli artisti! E allora vi era chi lavorava nella sua bottega, riceveva uno "stipendio" dal committente a cui doveva dare la precedenza, ma contemporaneamente prendeva altri lavori.

Per motivi di spazio, si è deciso di interrompere qui la narrazione. L'argomento è talmente vasto che richiederebbe non già un articolo, quanto piuttosto un intero volume di almeno mille pagine. La sintesi non è dote degli storici dell'arte e allora chi scrive preferisce frammentare l'argomento: fin qui la situazione in cui versavano la maggior parte degli artisti nel 1600. Nel prossimo, le rivalità che spesso nascevano per ottenere prestigio.